"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


martedì 7 marzo 2017

Migrazioni imposte, tollerate, pianificate

Proponiamo la sintesi introduttiva al recente IL CAOS DELLE MIGRAZIONI, LE MIGRAZIONI NEL CAOS. VIII Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo ( ed. Cantagalli, pag. 219 euro 14), curata da Stefano Fontana, Direttore dell’Osservatorio Cardinale van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa.
I grandi fenomeni migratori della nostre epoca sono davanti ai nostri occhi, ma abbiamo ugualmente la sensazione di non saperli spiegare fino in fondo. Conosciamo i dati, anche se solo pochi pazienti specialisti si sforzano di confrontarli e di spiegarli adeguatamente ed anche i mass media ne trattano in modo superficiale ed emotivo, ma i soli dati non bastano a spiegare questo grande fenomeno destinato a cambiare alla radice l’assetto mondiale e interno alle nostre società occidentali. La sensazione diffusa è che “dietro” ci sia qualcosa e che quanto è presentato come un fenomeno improvviso e spontaneo nasconda invece una organizzazione e perfino una pianificazione.
Le motivazioni economiche ci sono ed influenzano il fenomeno, ma non lo spiegano completamente. Dal punto di vista economico rimangono molti angoli bui. Gli immigrati clandestini che provengono per esempio dal Senegal o dal Ghana, ossia da Paesi non in preda a conflitti e con una discreta prospettiva di crescita economica per il futuro, arrivano in Paesi come l’Italia ove il Pil pro capite è in picchiata dal 2001 e la disoccupazioni molto accentuata. I motivi economici non spiegano migrazioni di questo tipo. Non spiegano nemmeno le supposte ragioni economiche dell’accoglienza. Il costo dell’accoglienza di un immigrato è superiore al beneficio economico che egli può dare al Paese che lo accoglie. Non è vero il luogo comune che gli immigrati garantiscono il pagamento del sistema pensionistico in un Paese, come l’Italia per esempio, in cui la fascia della popolazione lavorativa si assottiglia rispetto a quella a riposo. Gli immigrati non rimpiazzano le culle vuote, un immigrato non sostituisce un mancato neonato. Dal punto di vista pensionistico egli fornisce contributi al sistema previdenziale soltanto per la quota, minoritaria, assunta regolarmente e nel frattempo le spese di accoglienza corrodono in partenza il possibile beneficio futuro. Non è nemmeno vero che arrivino in Europa solo i poveri, che nei loro Paesi di origine morirebbero di fame. Ci sono anche questi casi, ma i dati mostrano che spesso a partire sono individui abbastanza benestanti desiderosi di migliorare ulteriormente la propria situazione e non solo di sopravvivere. Le tariffe dei trafficanti di persone non sono accessibili a tutti.
Spiegazioni sociologiche di comodo, come per esempio che i migranti fuggono da Paesi impoveriti dallo sfruttamento occidentale che li ha colonizzati a lungo politicamente e poi economicamente, non reggono. E’ evidente infatti che le difficoltà nello sviluppo di alcuni Paesi, per esempio africani, sono anche endogene e si chiamano corruzione, tribalismo, superstizioni ancestrali. Le interpretazioni pauperista e terzomondista non sono utili a spiegare l’attuale esodo.
Accanto alle cause economiche o sociali ci sono le cause politiche o meglio di geopolitica. A dire il vero i profughi che fuggono da queste situazioni e che ottengono asilo nel Paese di accoglienza sono pochi, dato che la grande massa di immigrati è costituita soprattutto da irregolari. E’ noto tuttavia che dalla Siria e dall’Iraq, o dall’Eritrea e dalla Nigeria, la situazione politica, e quindi il pericolo di morte o di possibile persecuzione, è causa principale delle fughe. Da questo punto di vista occorre segnalare la responsabilità politica delle principali potenze. Difficile negare che la destabilizzazione dell’Africa settentrionale e della Libia in particolare, oppure il disordine venutosi a creare in Iraq o la nascita del sanguinario califfato dell’ISIS tra Siria ed Iraq nascondano pesanti responsabilità delle potenze soprattutto occidentali. Le migrazioni da questi luoghi possono essere considerate forzate dalla situazione venutasi a creare e, forse, addirittura pianificate. Come non considerare da questo punto di vista l’estinzione del cristianesimo in Medio Oriente? Né si può tacere l’inerzia della politica internazionale rispetto alle efferatezze perpetrate in Eritrea e in Nigeria.
Man mano che ci si addentra nel problema delle migrazioni epocali del XXI secolo ci si rende sempre più conto che non si tratta di fenomeni spontanei, prodotti da situazioni oggettive venutesi a creare per cause di forza maggiore, ma di qualcosa di voluto o addirittura di imposto.
Torniamo alle cause antropologiche dell’emigrazione, come per esempio la denatalità delle società occidentali che, sia per motivi lavorativi sia ancor più per motivi di rimpiazzo generazionale onde evitare un saldo demografico persistentemente negativo, si auspica essere compensata dai nuovi arrivati che, tra l’altro, attualmente sono in media più prolifici di noi. Questa situazione di un vuoto che deve essere riempito non è nata però spontaneamente ma è stata pianificata e voluta. C’è stato per decenni un forte impegno degli organismi e delle agenzie internazionali, dei governi, delle grandi fondazioni statunitensi e non solo per disincentivare la famiglia e la natalità, per promuovere l’aborto e la contraccezione, per valorizzare stili di vita individualisti e sterili. Si tratta di fenomeni che i nostri precedenti Rapporti hanno documentato nel dettaglio, a cominciare dalla trasformazione della concezione della donna, alla promozione forzata e sistematica dell’ideologia del gender, ai progetti di transumanesimo finanziati a livello mondiale[2]. Se quindi qualcuno sostiene che le migrazioni hanno come causa la necessità di colmare il gap demografico dell’Occidente, si sappia che però questo gap demografico è stato voluto e, forse, anche allo scopo di produrre artificialmente una “necessità” per le migrazioni.
I fenomeni migratori ormai sono strutturati e organizzati. C’è una rete di delinquenza e di illegalità che li gestisce a livello internazionale e ci sono perfino tariffe a seconda delle varie destinazioni in cui si vuole arrivare. Ciò non elimina, naturalmente, il rischio e non evita che i migranti si sottopongano a viaggi dalle caratteristiche disumane, anzi spesso tutto questo viene aggravato dalla spietatezza delle organizzazioni del traffico clandestino. Dice però che sarebbe possibile attuare nei confronti di queste organizzazioni una comune azione di polizia, che finora non è stata mai nemmeno tentata. L’esistenza di queste organizzazioni, la loro impunità in quanto al di fuori di ogni controllo politico, dimostra che le migrazioni sono un fenomeno pianificato, che si fonda certamente su bisogni reali ma non casuali.
All’arrivo nei Paesi ospitanti la maggior parte degli immigrati è clandestina. I profughi e richiedenti asilo sono una stretta minoranza. Il flusso dei clandestini è talmente forte che è quasi impossibile da arginare. Essi stessi scappano spesso dai Centri di prima accoglienza se la loro meta non è il Paese dove per primo sono approdati. I tempi per esaminare il loro status sono molto lunghi e costosi. Sta emergendo l’idea condivisa che anche chi espatria semplicemente per avere una vita migliore che in patria non gli è possibile ottenere, ossia chi non è profugo o richiedente asilo, abbia diritto all’assistenza umanitaria, all’accoglienza e all’integrazione. Però la categoria di clandestino è applicabile ad un numero imprecisato di persone, ogni contingentamento diventa impossibile così come ogni accertamento o selezione all’ingresso. Se un Paese elimina la categoria di clandestino diventa meta di una migrazione dalle proporzioni incalcolabili. Ne diventa, in altri termini, vittima e non attore. Il principio mette in pericolo il concetto di bene comune e impedisce alle autorità politiche di perseguirlo. Questo non può essere accettato.
Oltre la fase dell’accoglienza c’è poi il problema dell’integrazione e su questo punto le situazioni e le visioni dei Paesi occidentali di immigrazione sono molto differenti tra loro. Il sistema tedesco funziona abbastanza bene, quello italiano è semplicemente inesistente. Manca però soprattutto una idea condivisa di integrazione. Cosa significa questa parola? La soluzione multiculturalista ha fallito ma non è stata sostituita da nessun’altra. In questo si nota la principale deficienza dei Paesi occidentali. La soluzione multiculturalista consisteva nell’accogliere gruppi omogenei di immigrati per cultura e religione e permettere loro di continuare nei Paesi ospitanti a praticare le loro forme di integrazione sociale per gruppi chiusi. Qualcuno aveva parlato di “balcanizzazione”. Negli Stati europei ci sarebbero numerose enclaves autonome e con vita propria. Del resto gli immigrati di oggi mantengono i rapporti con i Paesi di origine tramite internet, skype e i telefoni cellulari e fanno più figli delle famiglie dei Paesi ospitanti: questo rende molto difficile il processo di integrazione. Essi possono rimanere quello che sono, cercando magari di sfruttare i vantaggi dello Stato sociale occidentale. Per questi motivi molti osservatori dicono che l’integrazione è impossibile.
Uno dei motivi per cui essa è difficile o impossibile è il vuoto culturale dei Paesi occidentali ospitanti. La loro mancanza di identità, franata sotto la pressione del laicismo e dell’individualismo nichilista, fa in modo che essi non abbiano nulla da opporre e proporre ai nuovi arrivati. Nel pluralismo esasperato delle società occidentali vengono accettate anche visioni culturali e pratiche sociali inaccettabili, come per esempio il fenomeno delle spose-bambine o la poligamia. In Inghilterra la sharia islamica è accettata nel sistema giudiziario del common low. Il divieto francese di esporre pubblicamente simboli religiosi, se da un lato esprime un laicismo forte ed aggressivo che assomiglia esso stesso ad una religione così contraddicendosi, dall’altro rivela un vuoto di proposta, come se la laïcité fosse una pecie di nudité.
La prospettiva, quindi, delle società occidentali del futuro è quella multiculturale e multireligiosa, che oggi viene presentata come situazione ottimale e di ricchezza culturale per tutti. La diversità, si dice, è un bene e dalla rispettive diversità tutti trovano giovamento. La società monoculturale o a cultura prevalente viene considerata superata, asfittica e bigotta. Gli organismi internazionali e i centri di potere mondiali premono in questo senso, sicché la società del futuro sarà multiculturale e multireligiosa in modo forzato e imposto, e le migrazioni sembrano funzionali a questo progetto. Ci sono nazioni e Stati che cercano di reagire alla prospettiva multiculturale, cercando di difendere la propria identità nazionale e storica in modo da renderla anche compatibile con il progresso economico che dissuade dall’isolazionismo. E’ questo il caso dei Paesi europei orientali, più legati che non quelli occidentali alla propria identità nazionale e ancora immuni dall’influenza appiattente dell’appartenenza all’Unione europea. Quest’ultima ha di fatto lavorato finora contro le identità nazionali, nel tentativo di creare una super-cultura europea trasversale creata a tavolino dalle élites burocratiche di Bruxelles e dai centri di potere economico piuttosto che nata dal basso, dalla vita stessa delle nazioni. L’appiattimento culturale dentro l’Unione europea fa da specchio all’ingresso molto numeroso di immigrati allo scopo di concretizzare una società europea multiculturale. E’, appunto, la multiculturalità imposta.
Non è però detto che una società multiculturale sia più pacifica, più costruttiva e migliore. Può essere anche più conflittuale ed è per questo che il possibile passaggio successivo potrebbe essere di costruire una nuova cultura convenzionale e una nuova religione civile ove far convergere tutti i cittadini. Una specie di nuovo progetto kantiano per una “pace perpetua”, oppure qualcosa che si avvicina agli obiettivi massonici e gnostici di una religione universale che ponga fine ai conflitti culturali e religiosi unificando tutti in una super cultura e in una super religione dell’umanità. Da Saint Simon a Comte molti in passato si sono impegnati in questo infausto compito. La società multiculturale allora non sarebbe che un passaggio verso una società del pensiero unico, gestita dagli organismi internazionali e dai centri di potere mondiali e imposta a tutte le nazioni, indebolite al proprio interno dal multiculturalismo.
In questo contesto un approccio particolare richiede l’Islam. Non è accettabile una islamizzazione dei Paesi europei e quindi sono indispensabili forme particolari di politiche migratorie in riferimento all’Islam. Questa religione ha aspetti di integralismo incompatibili sia con la storia dell’Occidente sia con il  cristianesimo. E’ vero che l’Europa stessa ha anche storicamente delle componenti musulmane, ma nel passato queste sono state integrate dentro la visione cristiana. Si pensi, per esempio, alla filosofia di Averroè che, lasciata a se stessa, avrebbe creato numerosi problemi sia alla religione cristiana che alla società e che invece fu superata dalla sintesi cattolica di San Tommaso d’Aquino. L’islam contiene inoltre una visione non personalistica di Dio che invita solo alla sottomissione e non anche alla relazione. Ecco perché, come ebbe a dire Benedetto XVI a Regensburg nel 2006, esso non sempre si presta al rapporto con la ragione, rapporto su cui di fonda la distinzione (ma non la separazione) tra natura e sovra-natura, tra mondo e Chiesa su cui a sua volta si fonda la sana e legittima laicità. L’Islam non garantisce la legge morale naturale in tutti i suoi aspetti, né sostiene che la legge dello Stato debba rispettare i doveri e diritti della persona umana. Per la tradizione occidentale e cristiana il diritto di famiglia precede quello dello Stato e anche quello della religione, ma così non è nell’Islam. Infine c’è il tema della violenza[3]. Nell’Islam non esiste una autorità dottrinale unica, quindi il Corano viene letto in diversi modi. Non ci sono dubbi  che esso contenga anche sure che invitano alla violenza, ma ciò non impedisce che esista, almeno in linea teorica, un Islam moderato. Però la mancanza di una unica autorità islamica non impedirà che oggi e in futuro si dia anche un Islam aggressivo, esclusivista e violento, soprattutto contro ebrei e cristiani.
Nel panorama delle politiche migratorie e della futura imposta società multiculturale e multireligiosa l’Islam richiede quindi una valutazione particolare a cui la politica degli Stati occidentali non è preparata. In occasione dei numerosi attentati terroristici di matrice islamica si è notato una sottovalutazione del fenomeno, come se l’Islam c’entrasse poco o solo per motivi occasionali. Non c’è né una indagine precisa su chi finanzia la costruzione delle moschee, né un controllo su di esse e sugli altri centri cultuali islamici in Europa come per esempio le università islamiche, nemmeno sulla predicazione degli imam, che spesso è a carattere violento. Le espulsioni avvengono sempre dopo gli attentati e non prima, né ci si interroga sul perché ad attuare gli attentati siano sempre immigrati islamici di seconda generazione che avrebbero dovuto sentirsi integrati. L’Occidente non vuole proteggere i cristiani dalle vessazioni dell’Isis o di Boko Haram, figuriamoci si può avere la forza di pretendere la reciprocità: per ogni moschea costruita in occidente una chiesa cristiana costruita nei paesi musulmani. Questa debolezza fa paura e getta una luce sinistra sulle migrazioni in genere, dato che i migranti di religione musulmana sono molti e tra essi si nascondo anche possibili futuri terroristi.
Un processo migratorio incontrollato ed avente come scopo una società multiculturale e multireligiosa da superare in una successiva fase con una religione universale sincretista sembra anche funzionale al progetto di secolarizzazione e di eliminazione della religione cattolica. In questa prospettiva essa dovrà perdere la pretesa di unicità e specificità e confluire in una religione dell’ONU o in una ONU delle religioni. Si è a conoscenza di progetti pensati appositamente a questo scopo e di dichiarazioni di intenti a ciò espressamente finalizzate.
Il magistero della Chiesa cattolica e in modo particolare il recente magistero petrino è soprattutto attento a segnalare il dovere fraterno dell’accoglienza nei confronti di chi è nel bisogno. Si tratta di una indicazione evangelica. La complessità della problematica però richiede anche altri interventi ad altri livelli, pure essi animati dal dovere fraterno dell’accoglienza, che non può essere cieca ma deve strutturare la speranza[4]. Gli inviti del Santo Padre all’accoglienza del fratello non esimono dal conoscere le sfaccettature del problema e dal mettere in atto le necessarie strategie ai diversi livelli di competenza, anzi lo richiedono.
Bisogna notare qui che da tempo il magistero sociale della Chiesa ha trascurato di sviluppare un tema che, invece, nelle problematiche dell’immigrazione, gioca un ruolo molto importante. Mi riferisco al tema della nazione e della sua identità culturale che la pone necessariamente in rapporto con la domanda su Dio e quindi con la religione. L’ultimo ad occuparsene con una certa sistematicità è stato Giovanni Paolo II sia nella Centesimus annus[5], sia in numerosi discorsi, sia nel libro “Memoria e identità”[6]. L’uomo è incomprensibile – così egli insegnava – se non dentro la cultura della sua nazione e nella memoria della propria identità. E’ lì che il rapporto con Dio si manifesta in modo pieno, mentre visioni dell’uomo cosmopolite, come quelle nate dalla rivoluzione francese e dalla cultura illuminista, impediscono la relazione con Dio, appiattendo l’uomo, visto come singolo, dentro una umanità astratta e puramente quantitativa. Nella nazione, invece, l’uomo trova una entità organica e vitale che lo arricchisce. In queste considerazioni di Giovanni Paolo II deve essere stata centrale la storia della Polonia, la memoria della cui identità ha fatto tutt’uno con la memoria della Chiesa circa la propria identità. E’ per questo che oggi la Polonia è tra le nazioni dell’Unione europea quella più recalcitrante ad assumere modelli di ragionamento imposti da Bruxelles ed è anche quella che oppone più resistenza ad una immigrazione forzata ed avente come scopo la società multiculturale che è la negazione della nazione.
Non è opportuno sottolineare solo la globalità della convivenza umana e dimenticare la realtà delle nazioni, con cui l’evangelizzazione si è sempre misurata, avendo a cuore l’uomo concreto che è sempre dentro un contesto culturale specifico e non è l’uomo astratto dell’Illuminismo o della moderna società globale tecnologica. La concezione cristiana dell’unità del genere umano ha un fondamento teologico ineccepibile nella comune natura di figli di Dio Creatore, ma è organicamente ricca e non rifiuta l’appartenenza alle identità nazionali che come tali si rapportano anche alla dimensione religiosa. E’ interessante notare che, in genere, i vescovi africani cerchino di dissuadere i propri figli dall’emigrare, invitandoli piuttosto ad operare per il miglioramento della propria nazione.
In questa trascuratezza del tema della nazione si notano vari possibili pericoli. Il primo è che si vedano le migrazioni solo come migrazioni di singoli individui e non come migrazioni di popoli, culture e religioni. Sarebbe un errore molto rilevante. Il secondo pericolo è che si perda la possibilità di pensare adeguatamente il bene comune, perseguendolo anche tramite le politiche migratorie. Nell’accogliere gli immigrati il potere politico dello Stato accogliente deve tenere anche in conto il bene comune della propria comunità politica e deve preservare la identità o le identità culturali che ne costituiscono la memoria viva. In terzo luogo potrebbe darsi uno scivolamento pericoloso della Chiesa nel linguaggio e nella mentalità degli odierni organismi internazionali. Ma la Chiesa cattolica non può adoperare lo stesso linguaggio ideologico pacifista ed ecologista dell’ONU.
Le modalità con cui oggi si affrontano le migrazioni sono insufficienti. Il fenomeno va governato ma per poterlo fare bisogna conoscerlo nella sua realtà. Anche le frasi evangeliche possono diventare slogan ideologici se vengono adoperate per nascondere la realtà invece di tenerne conto. Impegnarsi per risolvere i problemi nei Paesi di origine, colpire le reti di trafficanti di persone umane, non creare in quei Paesi situazioni di guerra pilotata dalle potenze occidentali, colpire anche militarmente i califfati sanguinari anziché finanziarli o sostenerli indirettamente, proteggere i cristiani perseguitati, pretendere pariteticità con gli stati islamici, vegliare sugli ingressi di emigrati islamici, aver chiaramente in testa una piattaforma di valori da pretendere che gli immigrati condividano, dare prima assistenza a tutti ma non accogliere e integrare tutti, proteggere la propria identità culturale e nazionale, proteggere e difendere le proprie radici cristiane e cattoliche, non motivare l’accoglienza con inesistenti argomenti economici, operare per l’aumento della natalità nei nostri Paesi con adeguate politiche familiari e demografiche, opporsi all’appiattimento delle persone e dei popoli da parte delle nomenclature sovranazionali e alla imposizione del pensiero unico degli organismi internazionali. Ecco una rosa di modi di pensare che potrebbero essere utili a governare meglio il fenomeno epocale migratorio.


[1] Direttore dell’Osservatorio Cardinale van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa. Sottoscrivono la Sintesi introduttiva: Fernando Fuentes Alcantara, Direttore della Fundación Pablo VI, Madrid; Grzegorz Sokolowski, Presidente della Fondazione Osservatorio Sociale (Fundacja Obserwatorium Społeczne), Wroclaw (Polonia); Daniel Passaniti, Direttore esecutivo CIES-Fundación Aletheia, Buenos Aires; Manuel Ugarte Cornejo, Direttore del Centro de Pensamiento Social Católico della Universidad San Pablo di Arequipa, Perù.
[2] Il IV Rapporto (2012) era dedicato a “La colonizzazione della natura umana”; il V Rapporto (2013) a “La crisi giuridica ovvero l’ingiustizia legale”; il VI Rapporto (2014) a “La rivoluzione della donna, la donna nella rivoluzione”; il VII Rapporto (2015) a “Guerre di religione, guerre alla religione”.
[3] Silvia Scaranari Introvigne, La guerra “a pezzi” e le nuove guerre di religione, in VII Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, Cantagalli, Siena 2015, p. 149-164; Id., Violenza e pace di vecchi e nuovi califfati, in AA.VV., Le nuove guerre di religione, Cantagalli, Siena 2016, pp. 69-80.
[4] Lo hanno per esempio ricordato i Vescovi europei nel comunicato finale a seguito della Assemblea del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) tenutosi a Gerusalemme dal 11 al 16 settembre 2015.
[5] Giovanni Paolo II, Lett. Enciclica Centesimus annus (1991) n. 24.
[6] Giovanni Paolo II, Memoria e identità, Rizzoli, Milano 2005.

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