"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


lunedì 30 maggio 2016

Solite accuse alla Chiesa rwandese: solo voglia di giustizia o c’è altro?

Come rondini a primavera, ogni anno,  puntualmente in questo periodo compare sulla stampa rwandese il j’accuse contro la Chiesa cattolica per il ruolo recitato durante i cento giorni del 1994.Questa volta è toccato al giornalista rwandese ma attivo in Gran Bretagna, Vincent Gasana, cimentarsi, in un articolo sull’edizione odierna de The New Times. L'esercizio  è sempre il solito: accusare la Chiesa cattolica rwandese, e solo quella e non anche le confessioni protestanti, di tutti i peggiori misfatti possibili nella storia repubblicana del paese, a partire dalla fine della monarchia, con il culmine della partecipazione di suoi sacerdoti e suore nei massacri della primavera del 1994.
Secondo l’autore, la Chiesa cattolica rwandese, ma anche il Vaticano, continuano a  rifiutarsi di ammettere le proprie colpe e chiedere conseguentemente perdono rifugiandosi dietro “la foglia di fico” che “non può essere ritenuta responsabile per i crimini di singoli membri del suo clero”. Mentre in realtà “la Chiesa è stata- secondo l’autore-  l'istituzione più dominante nel paese, onnipresente in ogni aspetto della vita ruandese” che ha “ esercitato potere e influenza” lavorando  “a braccetto dello stato”.
Ecco, forse la chiave di lettura di questo periodico appello alla Chiesa, perché ammetta le proprie colpe e al Papa perché vada in Rwanda a chiedere perdono, (vedi vecchio post) non è tanto la  giusta sete di giustizia, che dovrebbe essere appagata dai processi e dalle conseguenti condanne dei religiosi e delle religiose, tutti conosciuti e quindi perseguibili, che si sono personalmente macchiati di orrendi delitti ( analoghi processi andrebbero, peraltro, riservati ai vincitori della guerra civile autori dei  delitti, trattati sbrigativamente dal giornalista, perpretati contro popolazione civile e religiosi, compresi tre vescovi) quanto piuttosto demolire il ruolo e “l’influenza” della Chiesa nella società rwandese.
Nella storia dell’Occidente abbiamo assistito alla secolare contrapposizione della Chiesa e delle realtà statuali maldisposte a vedere insidiato il loro potere assoluto dalla presenza di soggetti, come la Chiesa appunto, portatori di valori morali aventi una qualche ascendenza sulle popolazioni civili. Da qui il tentativo di molti governanti di riportare sotto il cappello dell’autorità civile anche l’autorità morale, di cui le cosiddette Chiese nazionali ( specie in campo protestante) sono un esempio. La tentazione per l’autorità politica, specie quella di paesi privi di una consolidata tradizione democratica alle spalle, di ricondurre sotto la propria ala anche l’istituzione religiosa è molto forte: ne è un esempio quello che succede in Cina dove avrebbe diritto di cittadinanza la solo “Associazione patriottica cattolica cinese”, strettamente sottoposta all’autorità governativa e completamente sganciata dal Papa.Anche a Singapore, riconosciuto modello per il Rwanda, la libertà di religione è limitata dalla Legge per l'Armonia Religiosa che consente al governo di mettere al bando i culti ritenuti divisivi e capaci di creare conflitti.
Quando si intima alla Chiesa rwandese di chiedere  perdono riconoscendo sue presunte colpe, è solo sete di giustizia o forse  si intende innescare un processo il cui sbocco ultimo sia l'istituzione di una Chiesa nazionale rwandese, riprendendo antichi progetti,  forse mai definitivamente riposti?

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