"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


venerdì 8 novembre 2013

A difesa del Kinyarwanda, lingua nazionale rwandese


Perché dobbiamo difendere gelosamente il Kinyarwanda, è il titolo di un interessante intervento di David Nkusi, uno studioso di patrimonio culturale, comparso sull’odierna edizione de The New Times. Partendo dalla costatazione che “il linguaggio è probabilmente la componente più importante della cultura che normalmente è trasmessa per via orale, l’autore ricorda come “il Rwanda, a differenza di molti paesi in Africa, sia uno stato unito sin dal periodo pre-coloniale, popolato da "Banyarwanda" che condividono un’unica lingua e un unico patrimonio culturale”. Questi due fattori vitali sono essenziali  perché il Rwanda possa, attraverso una cultura condivisa, superare i traumi dei conflitti passati  e avviare un processo di ricostruzione e sviluppo della società rwandese, non solo su basi politiche ed economiche, ma  facendo riferimento anche ad elementi intellettuali, emotivi e morali. “ La salvaguardia di tutti gli aspetti del patrimonio culturale in questo paese, sia materiali che immateriali (musei, monumenti, siti archeologici, musica, arte, lingua e artigianato tradizionale), è di particolare importanza in termini di rafforzamento della identità culturale in un senso di integrità nazionale “.Infatti, per dare un senso di continuità storica all’indentità dei rwandesi, secondo l'autore andrà perseguito questo legame   tra lingua e cultura così da favorire, attraverso diverse dinamiche, “il dialogo e l'inclusione sociale, che ci rende quello che siamo, consapevolmente, di generazione in generazione”. Un intervento forse non totalmente in sintonia (chissà se il caporedattore che ha passato il pezzo se ne è reso conto)  con quello che sta accadendo in Rwanda, dove molte scelte della nuova dirigenza sembrano andare in senso opposto a quanto auspicato dall’articolista. Basti pensare al modo in cui è stata imposta l’adozione dell’inglese, che ha quasi ghettizzato chi sa parlare solo Kinyarwanda e, all’opposto, non ha stimolato molti dei fuoriusciti rientrati in Rwanda ad apprendere il Kinyarwanda che  molti non conoscono ( lo confessano spesso anche molti giornalisti de The New Times nei loro pezzi in inglese) o parlano a fatica, come nel caso, si dice, di qualche esponente ai vertici della politica rwandese. Sull’argomento, già trattato in passato, rinviamo in particolare  al post del 22 dicembre 2010 e del 2 gennaio 2011. Si pensi  anche al cambiamento dei vecchi nomi di molte città rwandesi, piuttosto che della toponomastica della capitale.D’altronde, a tutte le latitudini e in ogni tempo è sempre stata forte la tentazione per le nuove classi politiche assurte al potere di fare tabula rasa del passato, anche se va detto che  la storia non sempre ha premiato tale scelta.

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